giovedì 1 gennaio 2009

Trekking in Nepal


QUESTO BLOG E' IL RESOCONTO DI 5 AMICI CHE HANNO EFFETTUATO NELL'OTTOBRE DEL 2008 UN TREKKING IN NEPAL. ESSO E' STATO PUBBLICATO A BENEFICIO DI QUANTI VOLEVANO SAPERE DEL NOSTRO GIRO E DI COLORO CHE POTREBBERO ESSERE INTERESSATI A SVOLGERE UN TREKKING SIMILE. LE FOTO SONO IN PARTE MIE IN PARTE DEI MIEI COMPAGNI DI VIAGGIO

TITOLO:

Ricordi e considerazioni di un posato cinquantenne, vicino a sentirsi, ed ad essere, un tranquillo pantofolaio, in cerca di emozioni tramite un’escursione in Nepal: Circuito dell’Annapurna e Bhaktapur

L’antefatto ed i protagonisti

E’ nata per sbaglio, come tutte le cose belle ed inaspettate della vita, la nostra escursione in Nepal. E come una buona parte delle cose della vita anche questa esperienza ha trovato le sue radici da un fatto triste. Era da oltre un anno che Anna, mia compagna, il primo dei personaggi di questa escursione e grande appassionata di montagna, assisteva con grande dedizione a casa il padre che si era fratturato il femore all’età di 85 anni. Dedizione che, tuttavia, non poteva protrarsi all’infinito. Così, quando Cristina, altra appassionata di montagne e secondo personaggio di quest’avventura, ha proposto a Marzo ad Anna una vacanzina di un paio di settimane in Nepal, Anna abbia accettato senza remore, nel tentativo di riprendere le forze psichiche e fisiche ormai consunte dalla dura esperienza dell’assistenza giorno e notte al proprio padre. Padre che, fortunatamente, avrebbe trovato sistemazione in una struttura per anziani nel mese di ottobre, periodo in cui Anna e Cristina avevano pianificato la loro gita di due settimane per la quale avevano già acquistato i biglietti.
A questo punto entro in gioco io, Marcello, terzo personaggio della storia, romanaccio di nascita ed appassionato non tanto di montagna, ma , come i miei degni antenati, “di quello che se magna” ed imbattibile nello sprint con la “scarpetta”. Una sera di Marzo avevamo invitato a cena due amici piemontesi, ulteriori personaggi di questa storia, e uno di questi, da atleta allenato, ci parlava della sua escursione sul Circuito dell’Annapurna. Quest'amico, nel bel mezzo delle chiacchere di circostanza, mi sorprende con la seguente domanda: “ Marcello, perché non andiamo tutti insieme con Cristina ed Anna?”
Il mio cervellino, a quel punto, ha cominciato a frullare ricordando le splendide foto del Nepal che lo stesso amico ci aveva precedentemente mostrato, e, spiazzando completamente Anna che certamente si sarebbe aspettata una risposta alla “Don Abbondio”, con candore, rispondo: “Ma si, mi sembra una splendida idea!”. E così, per i restanti 7 mesi, le nostre esistenze subirono un certo cambio, poiché tutti eravamo focalizzati su questa importante escursione, evento che ha poi pesantemente inciso sugli affetti, sullo spirito di tutti noi e che, per sommi capi vi descriverò, nei paragrafi seguenti.








Altri personaggi di questa avventura sono i nostri tre angeli custodi. La nostra guida Sukabir, un giovane di 24 anni, suo fratello Tham di qualche anno più anziano e Gyaljen (il cui nome è pronunciabile in italiano approsimativamente come Ghelden).

Il Circuito dell’Annapurna

E’ uno dei tanti percorsi di trekking che il Nepal offre. Per una conoscenza dettagliata raccomando l’acquisto della specifica guida della Lonely Planet che s’intitola “Trekking in Nepal”. Questo percorso, in particolare, offre l’emozione, sia di vedere montagne e panorami mozzafiato, ma anche di mettere alla prova se stessi se si intende superare il passo più alto del mondo, il famoso Thorung La alla quota, per me stratosferica, di 5416 mt passeggiando per panorami incontaminati. Il trekking inizia dal paesetto di Besisahr (quota 840 mt e sito a circa 180 km a Nord Ovest di Kathmandu) e, per le nostre esigenze di tempo, si è concluso a Jomsom, sede di un aeroportino che ci ha consentito un rapido rientro a Kathmandu per stare dentro alle famose due settimane iniziali di Anna e Cristina. Naturalmente il Nepal risente dei monsoni, per cui il trekking è fattibile soltanto nei mesi di maggio, ottobre e novembre. Al di fuori di questi mesi rischiereste la pioggia o la neve. Ulteriore informazione utile: se, come noi, avete intenzione di utilizzare l’aereo per accorciare qualche tappa, sappiate che è necessario acquistare i biglietti con mesi di anticipo. Tutti i turisti, infatti, più i locali, si affollano a muoversi nei limitati periodi in cui è possibile farlo, per cui conviene pensarci per tempo. Così pure i pernottamenti a Kathmandu, visto che, comunque, è una tappa obbligata per tutti i turisti. Noi ci siamo trovati bene alla Kathmandu Guest House, in pieno quartiere turistico di Tamel, poiché ha un bel giardinetto interno, lontano dall’infernale rumore del traffico .


La pianificazione e la preparazione

Ho acquistato una carta del percorso. Se ne trovano anche in Italia presso qualche buona libreria specializzata in viaggi. Quella che ho usato è della casa “Nepa Maps”, scala 1:125.000, ossia grande abbastanza per poter riconoscere il terreno circostante. Il foglio reca il titolo “Around Annapurna”. I tempi di percorrenza tra i veri paesini si possono ricavare da delle tabelle presenti sulle carte. Tuttavia, non ci sono i chilometri da percorrere, informazione molto più oggettiva della precedente. Quei tempi di percorrenza, infatti, sono applicabili ad un “camminatore medio” ma, come ho potuto provare di persona, ben lontani dalle mie ben più modeste prestazioni! Nella ricerca di un dato oggettivo mi sono allora ingegnato con un “odometro per carte”, ossia una rotellina che misura le distanze su carte di scala nota, cercando di seguire il più vicino possibile il sentiero. Il risultato, ovviamente, non è preciso, poiché, non si può tener conto di tutti i tornanti fatti dal percorso reale, ma, almeno, da un ordine di grandezza delle distanze. Distanze che, raffrontate poi con informazioni colte sul luogo, sono in realtà maggiori di quelle misurate di circa un 15 e forse, in alcuni casi, anche di un 20%. I chilometri pianificati risultavano circa 121, probabilmente saranno stati attorno ai 130-140. Abbiamo, per motivi di tempo, dovuto “impacchettare” il nostro trekking in 10 giorni, periodo, un decisamente ristretto, almeno per la mia scarsa preparazione od attitudine atletica. Tuttavia, o prendere o lasciare. Anna e Cristina avevano già preso i biglietti aerei della Qatar Airways, via Doha, con partenza da Malpensa il 5 ottobre e rientro da Katmandu il 19 ottobre. Per cui occorreva operare all’interno di quella finestra ed i calcoli vennero impostati per macinare chilometri il più possibile all’inizio, in modo tale da avere tratti brevi quando il percorso era al di sopra dei 4000mt. L’inizio del trekking sarebbe stato il 7 nel tardo pomeriggio ed il termine sarebbe stato il 17 mattina con il volo, immodificabile, che da Jomsom ci riportava a Katmandu. Un percorso che, molto spavaldamente, ci avrebbe condotto verso una “zona di non ritorno” una volta lasciata la cittadina di Humde (fornita di aeroportino) con direzione Thorung La. Ossia, se per qualche motivo non riuscivamo a fare il Passo, avremmo automaticamente perso il volo da Jomsom e, con esso, la possibilità di rientrare in Italia alla data stabilita. D’altra parte l’unica maniera per fare quello che volevamo fare era quella, ossia correre qualche rischio, di cui eravamo ben consci e che poi, alla fine, si è rivelato un potente catalizzatore.
Anna, appena arrivò la primavera, iniziò a tampinarmi con l’esigenza di camminare e fu così che, mio malgrado, le domeniche, invece di dedicarmi alla realizzazione di prelibati manicaretti in cucina da condividere con altri gaudenti commensali, mi trovavo sempre più spesso a sbuffare per le montagne del Piemonte!! Pur essendo un comodo, devo dire che quest’esercizio qualcosa ha fatto. Sono arrivato in Nepal e sino a 4000-4500 mt, pur avanzando piano, non mi sono sentito male. Qualche corsetta, inoltre, ha ulteriormente contribuito a far mettere giù la pancetta. C’è stato, poi, l’acquisto di tutto il materiale “tecnico”, autentica novità per me. Anna, infatti, mi ha fatto comprare capi di vestiario di cui, prima di allora, ignoravo addirittura l’esistenza, quali magliette traspiranti, occhiali da sole da ghiacciaio, asciugamani ad asciugamento rapido, pillole per la purificazione dell’acqua etc. Abbiamo cercato, come da suggerimenti ricevuti, di far stare tutto in uno zaino da 35-40 lt, in modo di evitare di mettere in stiva del prezioso equipaggiamento che, se smarrito sulla via di Katmandu, avrebbe messo a serio repentaglio la fattibilità del trekking.

Le tappe fatte

E quel fatidico 5 ottobre 2008, lontano puntolino sul calendario, oggetto dei nostri desideri, dei nostri sogni e delle nostre incertezze, che sembrava essere posto in un inarrivabile futuro, arrivò. Vista l’ estrema essenzialità della cosa, preparare lo zaino portò veramente via poco tempo. Era già tutto stabilito, per cui non fu difficile mettere quelle poche cose dentro. Un po’ di materiale, ancorché non di ottima qualità ma di prezzo molto contenuto, poteva essere anche preso in Nepal (gli ultimi acquisti avrebbero dovuto essere due sacchi a pelo da –10° ed un piumino), per cui non fu disastroso far stare tutto negli zaini. Naturalmente già calzavamo gli scarponi per alleggerire il bagaglio a mano. Nell’uscire di casa mi fece un certo effetto spegnere, finalmente, i miei due cellulari e chiuderli in un cassetto. Provavo una sensazione di liberazione e sollievo e, perché no, anche di maliziosa soddisfazione, nel potermi lasciare dietro le problematiche lavorative dalle quali, in altre situazioni, non mi sarei potuto sottrarre in modo così radicale. D’altra parte la copertura a Kathmandu consentiva ancora lo scambio di SMS con l’Italia, ma, una volta iniziato il trekking, il cellulare diveniva assolutamente inutile ed, allora, tanto valeva liberarsene!
Ed ecco, allora, le nostre tappe:

Domenica 5 ottobre partenza da Malpensa
Passiamo nel tardo pomeriggio a prendere i due amici a casa e l’agitazione, meglio, la contentezza, si comincia a far sentire. Molliamo giù la macchina in un parcheggio dalle parti di Malpensa, ci ricongiungiamo con Cristina. Tiriamo fuori ancora una volta la famosa carta geografica e viene fuori ancora lo stesso verdetto: “Almeno una media di 15 chilometri al giorno”. E con questa promessa che facciamo a noi stessi eccoci, tutti e cinque, andare incontro verso il nostro destino nepalese su di un A 330 che volerà con prua sud Est. E’ notte e cerchiamo di dormire come meglio possiamo, di guardare i film in arabo, avendo sempre in vista, su ogni schermo disponibile a bordo, la direzione della Mecca, nel caso volessimo cercare una qualche raccomandazione anche dal Profeta.







Lunedì 6 ottobre arrivo a Kathmandu via Doha
ci risvegliamo un po’ strapazzati in un aeroporto di Doha che appena si sta risvegliando. Ma non facciamo a tempo a stupirci delle donne completamente velate di nero, dei cinque inservienti necessari per fare un cappuccino, delle sale per la preghiera separate tra uomini e donne, che già ci imbarchiamo su un altro A330 per andare a Katmandu. Resta, tuttavia, del nostro rapido transito, la considerazione che per noi occidentali, è angosciante pensare che sotto quei veli neri ci sia una persona cui non è permesso esprimersi. E’ giorno e capiamo che stiamo sorvolando l’Iran, il Pakistan e l’India. All’arrivo a Katmandu il tempo non è tra i migliori e restiamo quasi una cinquantina di minuti in attesa perché non c’è un controllo radar e, quindi, il traffico è “procedurale”, ossia gli aerei sono separati sulla base dei riporti di posizione. Attesa che, in ragione della scarsità di alternati in zona, potrebbe facilmente trasformarsi in deviazione ad un qualche aeroporto in India, portando un colpo mortale alla nostra fragile e ristretta pianificazione. Alla fine tocchiamo terra pronti ad iniziare la nostra avventura. Il benvenuto in terra nepalese ci è venuto dal consueto parapiglia di un aeroporto internazionale: bagagli a zonzo sul nastro, passeggeri in cerca di carrelli, locali che prendevano i carrelli ai turisti, il tutto condito dal vociare delle persone, dai colori vividi e dalla confusione. Dopo quasi un’ora di attesa prendiamo possesso dei nostri bagagli, ripieni di vestiti da regalare alle nostre guide, fortunatamente arrivati tutti . Veniamo accolti, appena fuori dagli arrivi da Sukabir, giovane nepalese che sarà la nostra guida il quale ci mette al collo una bella collana di fiori in segno di saluto e ci dirigiamo verso la Kathmandu Guest House (KGH) nel centro del quartiere uscito turistico, traversando strade buie ed avendo un primo assaggio del concitato traffico nepalese. Due acquisti “tecnici” (piumino e due sacchi a pelo da –10°C) nel quartiere di Tamel e poi buona cena nel ristorante della KGH e finalmente ninna in un letto normale.




Martedì 7 ottobre (Kathmandu-Buhlbhulè)
Il mattino dopo inizia con una buona colazione ad un coffee shop non lontano dall’albergo dove ci propongono della buona pasticceria ed un cappuccino. Come dire di no? Cristina, intanto, si era svegliata prima e, da sola, si era fatta un giro per la città che, intanto, si stava risvegliando, prendendo molte belle foto. Poi ancora qualche acquistino tecnico (le borracce a bocca larga per agevolare l’uso delle pastiglie igenizzanti) e poi in agenzia di viaggi per discutere con il capo, un certo Pancia, dei servizi e dei costi. Tanto dovevamo comunque aspettare: infatti, abbiamo fatto quasi le due del pomeriggio per avere in nostro pugno i permessi di acceso al Parco dell’Annapurna. Conviene fare questo documento già a Katmandu per evitare file e contrattempi lungo il trekking. Conviene portarsi dall’Italia almeno 4 foto tessera già fatte, così si evita di dover perdere tempo a doverle fare in Nepal. Finalmente alle 14 arrivano i permessi e carichiamo il pulmino che, con i due portatori Galjen e Tham e la guida Sukabir, ci avrebbe accompagnato a Besisahar. In realtà avremmo voluto partire molto prima per arrivare in serata a Ngadi, camminando già un paio d’ore. Però, così è stato, per cui, affidandoci alla guida di un giovanotto scavezzacollo poco più che ventenne, ci siamo fatti circa 6 ore di bus per andare da Katmandu a Besisahar. Abbiamo incrociato ben quattro incidenti gravi e la strada, piena di curve a precipizio sul fiume, non ispirava molta fiducia. Interessante notare che tutti i camion sono abbondantemente “personalizzati” da colorite decorazioni.



Questo primo contatto con il Nepal ci ha dato l’opportunità di capire meglio la mentalità. Il concetto di curva o dosso, nella fede buddista, evidentemente consiglia ai nepalesi cose diverse da quanto, invece, suggerisce a noi il codice della strada. I sorpassi, infatti, avvenivano inspiegabilmente sempre in concomitanza di pesanti limitazioni alla visibilità in entrambi i sensi di marcia ed il ricorso alla fede, in questo caso buddista, era un obbligo. In diverse occasioni, tuttavia, fede o no, abbiamo avuto i capelli ritti in testa. Arriviamo fortunatamente a Besisahar attraversando risaie, prati coltivati e piccoli villaggetti. In uno di questi i recenti monsoni avevano lasciato un passaggio non facile per via del fango sulla carreggiata. Il nostro autista, troppo giovane per simili prove, era sceso dal mezzo e si era accovacciato a fianco dell’impedimento e guardava intensamente la massa fangosa. Probabilmente, invocando la medesima divinità che lo proteggeva nei sorpassi, stava aspettando che si asciugasse o si ritirasse sua sponte per farci passare. Così non è stato e dopo una inconcludente mezz’oretta di meditazione trascendentale, uno di noi ha preso l’iniziativa mettendosi ai comandi del mezzo superando abilmente l’ostacolo e destando l’ammirazione degli abitanti del piccolo paesetto, accorsi a vedere.






Arrivammo a Besisahar ormai con il buio, per cui non c’era verso di arrivare a Ngadi in serata. Tuttavia, tentammo con successo di avvicinarci almeno a Bhulbhule e, affittando una Jeep, facemmo una decina di chilometri di stradaccia, ma proprio stradaccia, tutti compressi dentro l’abitacolo che caracollava da una parte all’altra scavalcando torrenti, buche e sassi. Arrivo in un “Hotel”, rapida cena e poi ninna, per iniziare l’indomani il nostro trekking.

Mercoledì 8 ottobre (Buhlbhulè-Chamje: 18 km e più, e dislivello di 600 mt)
Inizia la nostra giornata abbastanza presto la mattina. E con essa una pri ma conoscenza delle rinomate “toilettes” nepalesi di cui avremmo dovuto fruire lungo tutto il trekking! I pochi lavandini e servizi disponibili, con eufemismo si sarebbero potuti definire non molto puliti, erano sovraffollati da tutti i trekkers che volevano partire presto. Le latrine, cabine in legno con un buco per terra, erano anch’esse prese d’assalto ed, ormai, piuttosto…piene. Un rapido sguardo ed affronto l’avventura di avviarmi verso la scoscesa riva di un fiume armato di saponetta ed asciugamano. Ebbene, a fronte di una umanità schiamazzante che sino a qualche istante prima mi infastidiva, ritrovo la pace sedendomi lungo la riva, fra dei grossi massi e liberando, in tutta serenità, lo spirito ed…il corpo! Ed affrontiamo finalmente i primi passi, partendo verso le 7.30. Il tempo è buono e la temperatura anche. La camminata si svolge tra una vegetazione fatta di alberi e piante tipiche del clima equatoriale, piccoli orti, grandi fianchi di montagna completamente terrazzati a colture di riso, recinti per animali. In questi giorni ricorre una festa religiosa e tutti i fedeli di religione buddista sono impegnati a preparare il menù più ricercato. Ed è stato così che lungo le curve del sentiero siamo involontariamente incappati in un evento molto crudo. Poco dopo Ngadi abbiamo visto decapitare una povera capretta. Abbiamo sentito il colpo di scure che si abbatteva sul ciocco, il correre via di una persona con il capo ancora sanguinante dell’animale, l’agitarsi del corpo privo della testa.









Un’esperienza cruda, una di quelle cui non siamo più abituati a tollerare con la vista e che rifuggiamo per principio, che però, fa parte delle nostri radici. La crudezza dell’immagine, la concitazione delle voci mi porta alla mente la descrizione fatta in Musica da Strawinsky nella Sagra della Primavera, Quadri della Russia pagana, Scena del sacrificio. Ma la cruda scena appena vissuta viene pian piano fatta sparire dalle nostre menti dal gioioso giocare dei bambini su improvvisate altalene fatte con grandi canne di bambù. Che piacere vederli divertire con così poco. Da parte di questi giovani ci è impartita una vera e propria lezione di saggezza. Saggezza che ormai abbiamo dimenticato a favore di superficiali e stupide attenzioni per tutto ciò che gadget, griffe od altro sciocco orpello che non ha davvero alcun valore intrinseco. Al contrario, male ormai totalmente diffuso nella nostra società, prestiamo solo attenzione a delle futili apparenze che comportino l’ingannevole gratificazione dell’ammirazione altrui. Ma proseguiamo per il nostro cammino. Il sentiero ci mette anche molto presto a conoscenza di una logica tutta nepalese riguardante gli spostamenti in montagna. Se occorre salire, ebbene il sentiero inizia a scendere. Viceversa, se bisogna scendere, il sentiero inizia a salire. Questo principio, purtroppo, quasi di dantesca memoria, si applicherà a buona parte del nostro percorso. Solo verso la fine una salita sarà davvero una salita ed una discesa una vera discesa! Per cui anche il percorso che seguiamo lungo il fiume, il quale avrebbe dovuto far pensare ad una graduale e dolce salita, in realtà, segue il principio generale di cui sopra ed è, quindi, è un susseguirsi di “strappi” in salita e di ripide discese. Nel pomeriggio piove. E’ la coda della stagione monsonica che va, per nostra fortuna, esaurendosi. Tuttavia dobbiamo indossare le mantelle antipioggia per evitare di inzupparci come pulcini. Arriva il buio e con esso, da montanaro assolutamente inesperto, la sorpresa di iniziare a camminare con una pila frontale accesa. Era la prima volta che mi capitava e devo dire che queste lampade sono veramente una mano santa. Arriviamo alle 19.30 poco prima di Chamje in un modesto alberghetto privo di luce, di cui ricordo un paio di cose. Una era l’avvicinamento alla lucina che ne identificava la presenza sul costone di montagna, così come viene spesso narrato da tutte le fiabe, e l’altra la romantica cena a lume di candela. Devo dire ero piuttosto sfatto, ma, alla fine, ero piuttosto fiero di me, visto che il percorso non era poi una passeggiata tanto breve.

Giovedì 9 ottobre (Chamje- Dahrapani, km 13 dislivello 400 )
Anche oggi gran fatica. La giornata inizia alle 7. Una cosa che ieri sera, nel buio, non avevamo visto, è che il panorama inizia a cambiare. La vegetazione inizia a farsi più rada, anche se c’è ancora un ricco sottobosco. Anche oggi, come ho omesso di dire ieri, il nostro percorso è disseminato di piccoli villaggetti popolati da bei bambini, tutti sorridenti, con moccio al naso e piedi scalzi, pozzanghere, galline,
caprette, bufale a zonzo per l’abitato. Abitato costituito da casupolette di legno, piene di fumo, di carne e sementi poste ad essiccare sui tetti.








Abbiamo ancora proseguito, con la solita regola “nepalese”, il corso del fiume. Fiume più volte attraversato da arditi ponti tibetani i quali non sono molto indicati per chi soffre di vertigini o non ama di vedersi sospeso. Si tratta di sicurissimi ponti metallici che, tuttavia, lasciano chiaramente intravedere il baratro sottostante, poiché sia pavimento che sponde sono fatte in rete metallica. In più quando ci si cammina sopra con una certa decisione la struttura inizia dolcemente ad oscillare il che potrebbe non essere particolarmente gradito. Ho, inoltre, notato con stupore che il nostro sentiero era contornato da piantine le quali avevano delle foglie che avevo già visto in certe pubblicità. Si trattava di marijuana, ed i porter, non i nostri, ne ho visto ne hanno fatto un qualche uso. Si sono, infatti, stropicciati le mani con le foglie. Fa pensare questa professione. Queste persone, tra cui anche molti giovanissimi poco più che dodicenni, meritano davvero il nostro rispetto. Vivono della loro fatica trasportando carichi pesantissimi per percorsi per noi proibitivi. Il loro equipaggiamento è una logora giacca a vento, un paio di calzoni sdruciti e, incredibile, pianelle da bagno od, al massimo, un paio di scarpe da ginnastica, per camminare. Camminano, piegati in avanti, quasi per sottolineare una posizione di sudditanza anche morale, con una cesta di vimini o di metallo dietro la schiena e dei legacci che la connettono al corpo ed uno di essi passa sulla fronte. Non parlano ma procedono con il loro passo lento e, di tanto in tanto, si fermano su una sorta di marciapiedi rialzati su cui poggiano il loro pesante fardello. Abbiamo visto portare di tutto: taniche di carburante, tavoli di ferro, bombole di gas.

























E fa pensare che tutto ciò di cui noi abbiamo fruito o fruiremo in quel trekking (alcuni viveri, mercanzie ) provenga dal silenzioso e sconosciuto sforzo di queste persone degne di tutto il rispetto. Nel pomeriggio ha di nuovo piovuto e ciò ci ha dissuaso dal proseguire sino a Timang. L’indomani mattina abbiamo capito che questa è stata una saggia decisione. Ci ha anche dissuaso il fatto che era pieno di trekkers in cerca di dove dormire e ritardare ancora l’arrivo ci avrebbe sicuramente posto qualche problema. Ci siamo quindi fermati verso le 17 a Dharapani in un ostello addirittura fornito di doccia con acqua calda. Cenetta insieme alle 18.30 con una coppia di francesi ed una famiglia israeliana. Va detto che sia Sukabir che Tham e Gyaljen si adoperano per noi, tanto per cambiare, anche per la cena. Prendono gli ordini, infatti, e si preoccupano che questi vengano effettivamente fatti dal personale di cucina. Più di una volta, per farci arrivare il pasto caldo, si sono addirittura premurati di servirci a tavola. Nel frattempo, Sukabir si era attivato per recuperare un cavallino per me il giorno dopo….

Venerdì 10 ottobre (Dahrapani - Dukure, km 24 dislivello 1100 metri )
E la giornata inizia, per me, salendo sul dorso di un possente cavallino di nome Sejen. La spiegazione è molto semplice. La tratta di oggi è di almeno 25 km e la prima ora e mezza, da Danagu a Timang, è una impestata salita di scalini nel bosco in grado di spezzare le gambe con il suo brusco strappo verticale di 500 metri. Per cui, per me, mediterraneo seguace delle teorie di Epicuro, non c’è verso di arrivare a destinazione se non con l’aiuto del menzionato quadrupede. Gli altri ragazzi, coraggiosamente, si avviano a piedi consci della passeggiata particolarmente impegnativa.

Tra gli altri trekkers che affrontavano questa salita, merita citare riportare la presenza dell’immancabile gruppetto di assatanati pensionati francesi che, posseduti dal fuoco sacro o, forse, dagli spiriti maligni, talvolta addirittura riuscivano sullo strappo a superare il mio somarello! Anche interessante il conduttore del cavallino, un giovanotto sulla ventina d’anni, il quale ha sempre, beato lui, preceduto l’animale, quasi non sentendo la fatica. E questo era vero sia per la indubbia preparazione atletica dei nativi sia pure per il fatto che ho notato lo stesso nativo masticare qualche “fogliolina” di quelle di cui sono piene le sponde dei sentieri…Ma anche la mia cavalcata, per comodo che fosse, ha avuto qualche difficoltà. Il percorso, scavato nella roccia viva, in alcuni punti era talmente scosceso che il conduttore del povero Sejen mi ha chiesto di scendere. In quest’occasione ho scoperto come si guida un cavallo in Nepal. Per mandarlo avanti occorre pronunciare in modo secco un “Sciè!” mentre per fermarlo occorre dire un gutturale “Kkk!””. Arrivati finalmente in cima al bosco ed alla orrida strada attraverso di esso, sono arrivato a Timang. Gli altri amici erano già oltre, mentre Anna e Cristina erano ancora dietro. E è stato così che, pagato il mio obolo al conduttore e salutato il mio paziente amico quadrupede, ora provavo l’emozione di camminare con il mio passo per il sentiero oltre Timang in direzione di Dukure. Era la prima volta che mi trovavo da solo. La compagnia di certo non manca, nel senso che i trekkers di giorno sono tanti ed il sentiero è veramente una pista, per cui non si ha l’ansia di perdersi nelle montagne. Sulla mia strada per Taleku, luogo fissato per l’incontro con Anna e Cristina, passo una serie di piccoli paesini, come sempre molto caratteristici. A Chame, il più importante di essi, cerco di cambiare un po’ di moneta, ma, per le festività in atto, la piccola banca locale era chiusa. Il percorso verso Taleku è abbastanza piano, per cui, mentre cammino, mi godo il panorama circostante. Mi posso fermare e fare qualche foto e fermo la mi attenzione sui numerosi tempietti (stupa) con le pietre incise, le bandierine multicolore con le preghiere che svettano al vento e le loro ruote che vanno rigorosamente fatte girare in senso orario.


La vegetazione a questo punto è decisamente di montagna: dei grandi abeti caratterizzano tutto il paesaggio e l’aria, ormai quella degli oltre 2500 metri, sta divenendo piacevolmente secca. Arrivo a Taleku e, mentre mi prendo del thè. Gioco con due bimbetti che timidamente mi si avvicinano ed ammiro un vassoio in pietra messo dentro una fontanella. Mi ricongiungo verso le 16 con la retroguardia del gruppetto e proseguiamo verso Dukure, distante ancora, purtroppo, ben 7 chilometri. Io ero abbastanza stanco, ma pensando ad Anna e Cristina che avevano fatto, in mattinata, anche lo strappo per arrivare a Timang, mi ritenevo fortunato.










Proseguiamo nel buio la nostra sempre più stanca camminata. Peccato, dalla flebile luce delle frontali desumo che il sentiero deve essere spettacolare. A destra, infatti, c’è una parete rocciosa ed a sinistra un ancor più buio dirupo. Si intravede una parete rocciosa molto vicina. Si può quindi intuire, anche dal rumore, la presenza di un turbinoso fiume che scorre incassato tra due pareti molto vicine. Ad un certo punto, il sentiero diviene un vero e proprio scavo incavato nella roccia che meriterebbe fior di foto. Il buio e l’esigenza di chiudere questa tratta oramai protrattasi davvero oltre misura non consentono nient’altro se non guardare bene dove mettere i piedi. Terminato questo tratto, di cui proverò sempre il rammarico di non essermi goduto le fattezze, penetriamo, sempre nel buio più pesto, in un bosco ovviamente in dannata salita. Proprio non ci voleva. Anche Gyaljen e Tham sono esausti e, nonostante questo, prendono gli zaini mio e di Cristina. Dopo un lungo tratto la salita molla ed il terreno diventa più pianeggiante. Ma le emozioni, in quel lungo giorno, non erano ancora finite. Io, per dare il passo che potevo reggere agli altri, camminavo davanti a tutti. Ad un certo punto, a non più di una decina di metri, scorgo un riflesso al fascio della mia frontale. Sono due occhi gialli, ben grandi e ben distanziati. Realizzo immediatamente che si tratta di un animale ed anche di una certa taglia. Guardo ancora in quella direzione e richiamo l’attenzione dei miei compagni di viaggio che mi seguivano. Anna fa giusto a tempo a vedere i due occhi che cambiano direzione e svaniscono nel buio in gran silenzio, così come erano comparsi. Non sapremo mai a chi sono appartenuti quegli occhi anche perché sia Gyaljen che Tham erano indietro e non hanno visto nulla, ma la sensazione è stata che fosse qualche grosso felino incuriosito e, fortunatamente disturbato, dall’indiscrezione delle nostre frontali. Arriviamo, stanchissimi, attorno alle 20 in un bel lodge, nuovo e fatto tutto di legno, per consumare assieme la cena e crollare a letto.

Sabato 11 ottobre (Dukure - Manang, km 18 dislivello 800mt )
Ci svegliamo e ci vediamo per la consueta colazione nepalese costruita da un menù assolutamente ripetitivo, come del resto tutti i pasti durante il trekking. La colazione standard era fatta da thè, uova fritte, pankakes con miele e pane tibetano. Mentre ci raccontiamo ancora le peripezie della sera precedente il cielo non è al meglio. E’ un po’ nuvoloso ed i colori spenti. Cionondimeno il panorama che si schiude alla luce del giorno è davvero maestoso. C’è una montagna i cui fianchi formano un possente anfiteatro di roccia di dimensioni colossali.
E l’albergo era come fosse sul palcoscenico dello stesso. Oramai a 3000 metri, iniziamo la nostra passeggiata che, quest’oggi, prevede appena 500 metri di differenza di quota e, come ci assicura la guida, finalmente questo dislivello inizia a non seguire la consueta regola dei dislivelli nepalesi. Il cielo si libera d’improvviso dallo straterello di nubi ed esce fuori un prepotente blu. Il sole illumina tutto ed escono fuori dei colori intensi. Sulla nostra sinistra il possente impianto dell’Annapurna II e dell’Annapurna IV entrambi superiori ai 7500 metri che ci guardano sorridenti, tutti coperti di neve. Molto minore il numero dei turisti. Probabilmente le tappe forzate dei giorni precedenti ha fatto si che siamo riusciti a seminare diversi gruppi ed ora l’ambiente è molto più tranquillo. Ironia della sorte il percorso è molto agevole al punto tale che una macchina potrebbe benissimo percorrerlo. Mentre proseguiamo verso Manang facciamo il nostro primo incontro con l’artigianato locale. E’ un piccolo chiosco gestito da un tenero vecchietto muto. Naturalmente le fanciulle del gruppo non si fanno sfuggire l’occasione e comprano un bel po’ di oggetti, tra l’altro anche molto belli. Alla fine gli lasciamo un bel gruzzoletto ed è felicissimo e cerca, come può, di ringraziarci. Noi anche lo siamo. Siamo contenti di aver in qualche modo contribuito ad aiutarlo. Ancora i due Annapurna ci chiamano per farsi fotografare. Arriviamo in questo incantevole panorama, senza quasi accorgecene, a Humde, sede di un piccolo aeroporto incassato in una valle. Pranziamo lì e la piccola figlia del gestore mi chiede di legare il suo palloncino ad un filo. Familiarizzo e gioco con lei. E’ bello vedere che, in qualunque parte del mondo ti trovi, i bambini sono sempre molto aperti e basta giocare un po’ con loro per entrare in confidenza. Proseguiamo in un pomeriggio strepitoso, fatto di sole e di luce, verso Manang, fermandoci per un “small pot of black tea” a Braga, dove faccio riposare un po’ i piedi all’aria aperta! L’arrivo a Manang è stato particolarmente bello.
























































































Si trova su una piana attraversata da un fiume e popolata da mandrie di yak al pascolo. Un paesetto fatto in buona parte di costruzioni di pietra dal quale riusciamo addirittura a fare un colpo di telefono in Italia da un pittoresco negozio che fungeva da centrale telefonica ove la durata delle chiamate era misurata dal cronometro dell’impiegata che fisicamente assisteva alla telefonata, come pure tutto il resto della clientela. Anche in quest’albergo riusciamo a farci una doccia calda. Un lusso che non vedremo per i giorni successivi. La sera abbiamo addirittura un evento sociale consistito nel vedere in una piccola stanza la proiezione di un film di montagna. Si è trattato di “Aria sottile” e, in vista della nostra salita sul Thorung La, forse, non era la proiezione più indicata.

Domenica 12 ottobre (Manang - Yakkarka, km 9 dislivello 500 mt)
Ripartiamo da Manang. Il cielo è tersissimo ma la temperatura è rigida, decisamente sottozero. I rivoletti che attraversano il sentiero sono tutti ghiacciati. La piana, man mano che saliamo, ci fa salire con Manang sempre in vista e ci pare di poterla toccare con le mani. Poco dopo aver lasciato Manang troviamo un altro chioschetto di oggetti d’artigianato. Ci accoglie il sorriso della signora Omna la quale ci descrive, nel suo semplice inglese e con orgoglio, come sono fatti gli oggetti che vende. Compriamo anche lì e, felice, la signora Omna ci regala un bel sorriso ed una bella mela per uno. Dopo un’ora di cammino, poco dopo Gunsang, ci fermiamo per prendere la prima “pot of tea” della giornata. Nel frattempo il sole era venuto fuori per bene e la temperatura era divenuta molto più gradevole. Questa fermata ci ha dato l’opportunità di conoscere due realtà. La prima quella costituita dalla scelta di libertà vissuta da Valérie, gioviale professoressa di informatica in un liceo francese, che si era presa il suo anno sabbatico ed aiutava in cucina in cambio di ospitalità. Lei faceva il circuito in senso opposto al nostro. La seconda, molto più prosaica, sulla modalità con cui i lodge scaldano l’acqua per il thè. Si tratta di una struttura di specchi a forma di parabola nel cui fuoco c’è la teiera. Un metodo efficacissimo e profondamente rispettoso dell’ambiente. Come sempre c’è da imparare dalla cultura nepalese. Mentre proseguiamo per Yakkarka sulla nostra destra, in lontananza, da una delle cime del complesso del Chulu, vediamo staccarsi una poderosa valanga, la quale, seppur distante, fa sentire il suo minaccioso rimbombo. Ed arriviamo nel primo pomeriggio a Yakkarka, in un bel pomeriggio a













































allietato dal sole che faceva sentire il suo tepore nonostante fossimo già a 4000 metri. Una simpatica nota da ricordare: abbiamo trovato tutti i giovanotti di questo piccolo paese impegnati in una partitella a calcio dribblando gli yak a bordo campo! Davanti al nostro semplice lodge due falegnami piallavano a mano del legno. Un’immagine che sembrava veramente provenire dal libro dei nostri nonni!

Lunedì 13 ottobre (Yak Kharka – Thorung Phedi, km 7 dislivello circa 500 mt)
E rieccoci in cammino per Thorung Phedi, adesso andando davvero piano piano. Il cielo è blu , il sole molto intenso, troppo intenso per essere sostenuto senza l’ausilio di un buon paio di occhiali da sole. E l’aria, visti i 4500 mt cui si trova Thorung Phedi, comincia a farsi sottile e la vegetazione è ridotta a qualche rado, ma colorito, cespuglio. In compenso, le correnti che lambiscono i fianchi della montagna consentono ai corvi evoluzioni ardite. Più in alto, quasi noncurante di quello che succede nelle volgari vicinanze del terreno, l’evoluzione nobile di un’aquila che, appena per qualche secondo, si concede ai nostri teleobiettivi. La tratta dura qualche ora ma inizia a farsi sentire un tipo diverso di stanchezza. Una stanchezza che viene da dentro, non conseguente ad una lunga tratta di cammino. Cristina, infatti, inizia a non sentirsi bene ed il suo viso è gonfio. Arriviamo all’ostello, in una sistemazione ancora più spartana delle precedenti, e crollo a ninna, nonostante sia appena primo pomeriggio.






























Gli altri, più coraggiosi, proseguono di un paio di centinaia di metri più in alto per facilitare l’acclimatamento. Una rapida cena e poi ninna.

Martedì 14 ottobre (Thorung Phedi – Hi Camp, km 2 dislivello circa 300 mt)
Lasciamo i 4500 di Thorung Phedi per portarci a Hi Camp, sito a 4800. Una passeggiata apparentemente breve, al più di un paio di chilometri, ma, a questo punto, pienamente esposta alle insidie dell’ alta quota. Il ritmo se è sempre stato lento ora è veramente lentissimo. Il mio gradiente ascensionale è di appena 100 metri l’ora. Noto che la lunghezza del mio passo è pressappoco lunga come quella del mio piede. E d’altra parte non può che essere così perché, altrimenti, il fiatone si fa sentire subito e le pulsazioni subito dopo.























L’ultimo centinaio di metri, quando ormai il rifugio è pienamente in vista e sembra a portata di mano, sono veramente una fatica. Penso che raggiungendo Hi Camp, in definitiva una più che dignitosa sommità del Bianco!, ho raggiunto la mia tangenza massima con mezzi autonomi. Non ho mal di testa, non ho problemi di respirazione, ma provo un grande senso di spossatezza. In più, il senso della fame mi era completamente svanito da quando avevamo lasciato i 4500. Che strana sensazione, proprio per me che sono un godurioso dei piaceri della tavola!
Infatti, appena arrivo verso le 13 cerco di inghiottire qualcosa controvoglia e vado a riposare. Dormo sino alle sei del pomeriggio ed, ad ora di cena, arrivo a tavola con difficoltà. Ho addosso un gran freddo e provo la strana sensazione di fare le cose come non fossi io a farle. A cena, nel rifugio di Hi Camp, viene proposta la solita minestra di cipolle che, in realtà è un tritato di aglio crudo messo a bagno in una brodazza insapore. Si, perché ci hanno detto le guide che l’aglio è un ottimo ossigenante per il cervello per curare i sintomi del mal di montagna. Sarà, ma il primo boccone mi provoca un irresistibile conato di vomito che a malapena riesco a trattenere. Cambio allora decisamente genere e vado per una calda tazza di thè con molto zucchero. Dopo un po’ le energie entrano in circolo e mi sento meglio. Tuttavia Anna nota che le mie labbra sono piuttosto cianotiche. Tutto ciò mi induce a decidere, senza ombra di dubbio, che l’indomani è al di sopra delle mie forze pensare di fare, o, almeno di fare in un tempo plausibile, i 600 metri di salita per arrivare ai 5400 metri del Thorung La e poi la lunghissima discesa dal Passo sino a Muktinath con i suoi ulteriori 1600 metri di dislivello. Sarà quindi ancora il generoso aiuto di un altro cavallino a farmi evitare la salita. Arriverò al passo a cavallo e poi mi farò la discesa a piedi. Cristina si associa alla mia scelta. Ritengo che sia inutile pianificare al di là delle proprie forze e, sereno di questo convincimento, mi vado a rintanare nel caldo del mio sacco a pelo nel tentativo di incamerare quante più energie possibile per il giorno dopo.

Mercoledì 15 ottobre (Hi Camp - Muktinath, km 10 dislivello, 600 metri a salire, 1600 a scendere)
La giornata, molto bella, inizia ben presto. E’ necessario, infatti, transitare per il passo non oltre le 10 -11 del mattino, altrimenti si rischia di incontrare un forte vento. Alcuni gruppi lasciano le umide stanze del rifugio ancora nel pieno buio. Faccio malvolentieri un po’ di colazione nella speranza che mi dia un po’ di energia. Ma le uova fritte che mangio non mi sembrano affatto appetitose. Mi sforzo e butto giù, accompagnando il tutto con il solito thè caldo zuccherato all’inverosimile. Usciamo dal rifugio ed i nostri destrieri sono già lì che ci aspettano. Salgo, non senza fatica sul mio, un po’ impacciato da tutte le tute, maglioni e dallo zaino contenente anche pesi degli amici che coraggiosamente salivano a piedi, un po’ dalla fiacca che, invece, avevo dentro. I conduttori indirizzano i cavalli (e ce ne sono davvero molti altri per cui mi

sento ancor meno in colpa!) verso una brusca salita e, dopo pochi minuti, iniziamo a calpestare anche la neve. Il rumore degli zoccoli che calpestano pietre e neve è quasi un incanto. Non si sente nessun altro rumore se non qualche alito di vento. Tutt’attorno il nulla, solo grandi cime coperte di neve e l’intenso blu del cielo. Il gruppetto di cavalli è preceduto da un simpatico cagnaccio tibetano che pare essere il capo della carovana e dettare il ritmo ed indicare i passaggi da compiere. Ogni tanto si fermano anche i quadrupedi, la fatica la sentono anche loro. Tuttavia, quasi per un gioco, sono proprio gli stessi cavalli a fare una sorta di gara ed a mordersi indisciplinatamente gli uni con gli altri mettendo in un certo imbarazzo il loro inesperto cavaliere. E man mano che saliamo incrociamo tutti quelli che erano partiti molto prima la mattina. Cristina ed io incrociamo dapprima i due amici , e , poi, poco più in alto,



















Anna, tutti ormai prossimi alla cima. Purtroppo non riusciamo ad arrivare tutti nello stesso momento su. Né, d’altra parte, è per me possibile aspettare gli altri. Una volta in cima, sceso da cavallo, sento che la sensazione di freddo di prima, da semplice disagio è divenuta un vero e proprio impedimento ai miei movimenti ed ai miei pensieri. Ho solo voglia di sedermi e stare al caldo. Mi fanno male le punte dei piedi e delle mani, nonostante siano abbondantemente protette. Per cui non ce la faccio proprio ad aspettare l’arrivo di tutti. Una rapida foto con Cristina davanti alla lastra di pietra che segna la sommità dell’ascesa, un’altra con Anna che, nel frattempo sopraggiunge, e poi chiedo al conduttore l’uso del cavallo almeno per scendere un po’. Non so proprio, in queste condizioni di estrema debolezza, come farò a scendere per il percorso ancora così lungo che mi attende. Dopo un po’ mi viene detto che il cavallo non può proseguire oltre e mi tocca scendere. Che fatica mettere un piede appresso all’altro! Intervengono Sukabir e l'amico piemontese che mi sorreggono affettuosamente prendendomi sottobraccio. Macchè, non basta, le gambe non ce la fanno. Eppure sono perfettamente conscio che scendere, ed anche presto, è l’unica cosa che dovrei fare. Cristina, a questo punto, tira fuori dalla sua borsa delle meraviglie di medico una siringa di 4 mg di Bentelan, un cortisonico che stimola il tono generale, siringa con cui Anna infilza la mia chiappetta per quell’occasione esposta alle rarefatte atmosfere dell’Himalaya. Nonostante la mia avversione per le siringhe, ricordo, onestamente, di non aver sentito proprio nulla. Mi fanno sedere su una pietra ed aspettare l’effetto. Dopo un po’ inizio la discesa aiutato da Sukabir e passetto dopo passetto, scendo sotto i 5000 metri, ritornando verso una condizione migliore. A quel punto anche le estremità non mi fanno più male. In più, il sole della mezza mattinata iniziava a far sentire i suoi benefici effetti e, finalmente mi sento bene. Il resto della lunga discesa a Muktinath prosegue in un clima festoso, felici tutti quanti di aver passato, ognuno come poteva, un grosso, il più grosso ostacolo dell’intera avventura in Nepal. Finalmente, verso le 17 arrivo a Muktinath, caratterizzato da un panorama assolutamente arido e spettacolare.





Il sole era stato esattamente in faccia per tutta la discesa ed, ancor di più, era luminoso entrando nel paese.






















Cena fatta in allegria, finalmente con un po’ di birra, essendo tutti contenti di aver fatto il Passo e, con questo, di aver superato una bella prova. Nell’ambito di questa cena, è venuto spontaneo a tutti noi voler consegnare una mancia ai nostri angeli custodi che tanta parte hanno avuto per la riuscita di questa spedizione.
Giovedì 16 ottobre (Muktinath – Jomsom km 17 dislivello 700 metri a scendere)
Quest’ultima giornata è un po’ differente dalle altre precedenti. Ci alziamo presto, quando ancora il paesino è ancora addormentato, ed andiamo a visitare tre templi che avevamo intravisto il pomeriggio del giorno prima poco fuori dell’abitato. L’aria è fredda, l’acqua ghiacciata per terra e, nel cielo che iniziava a rischiararsi, ancora la luna. Nei due templi buddisti siamo stati accolti senza difficoltà.; l’unica cosa che ci è stata richiesta è stato il fatto di toglierci le scarpe. Al contrario nel tempio indù non ci è stato concesso l’accesso all’interno. Tuttavia, anche stando soltanto all’esterno abbiamo assistito a qualcosa di particolare. Infatti, attorno al tempietto c’era una sorta di percorso purificatorio, così ci è stato indicato, che passava sotto bocchette d’acqua che veniva giù dalla montagna, sulla cui temperatura non oso fare un pronostico. Ebbene, due fedeli, due giovanotti, hanno effettuato l’intero percorso prendendo sul loro corpo, pudicamente coperto da un panno attorno ai fianchi, l’ acqua purificatrice. Da peccatore incallito avrei preferito, di gran lunga , tenermi le mie colpe, soprattutto a quell’ora di mattina e con quelle temperature! Nei templi buddisti ovunque rappresentazioni policrome della vita di Budda e delle sue gesta. Ovunque coppette piene d’acqua che viene cambiata ogni giorno. Sotto una sorta di altare Gyaljen, molto credente, ci faceva notare delle piccole fiammelle azzurre. Era una piccola vena di gas naturale ed era motivo di grande ammirazione per i fedeli che venivano a pregare. Rientrati in albergo abbiamo chiuso negli zaini tutto l’equipaggiamento speciale utilizzato per l’alta quota e ci siamo divisi in due gruppi. Un primo coraggioso equipaggio (i due amici piemontesi e Sukabir) è sceso a piedi per fare l’ultima tratta prevista. Un secondo, più mediterraneo, equipaggio, di cui ero il comandante, ha preferito glissare sull’invito a compiere gli ultimi quasi 20 chilometri di trekking affittando una Jeep. Ma prima di partire, la colorita piazzetta di Muktinath ha assistito ad un raid di alta economia effettuato da Cristina ed Anna, le quali, sicure ormai di non dover andare più per i monti a guerreggiar, si sono buttate a capofitto in uno shopping estremo, degno della stagione dei saldi.





























E’ stata fatta incetta di sciarpe di lana di yak, molto calde e presenti in una vasta varietà di colori. E compra di qui e compra di là abbiamo riempito un intero sacco di quelli utilizzati per mettere dentro il riso. Tranquillo viaggio sino a Jomsom in un panorama che sembrava lunare tanto che era arido. In particolare ci resterà nel ricordo la piatta pietraia che segnava la fine della discesa e che era percorsa da carovane di somarelli carichi all’inverosimile. Finalmente arrivo in albergo, doccia calda e poi pranzo. Albergo situato esattamente a fianco della piccola pistarella dell’aeroporto di Jomsom. Il resto del pomeriggio, mentre Tham e Gyaljen si avviano a piedi ed in autobus verso Kathmandu per un paio di giorni di viaggio, “libera uscita” sull’unico stradone, neppure poi tanto grande, di Jomsom in giro per negozietti di artigianato tibetano. Rientro in albergo e serata a comprimere abiti, regali e tutto quanto avevamo per farlo rientrare negli zaini…impresa davvero difficile!!

Venerdì 17 ottobre (Jomsom Pokkara Kathmandu)
Tanto per cambiare anche oggi la sveglia suona presto. E l’appuntamento è importante. Perdere l’aereo oggi significherebbe mettere a serio repentaglio il rientro a Kathmandu e con esso il rientro pianificato in Italia.. Per cui eccoci pronti a questo viaggio nepalese, questa volta non affidato alle nostre gambe.

Ma parliamo del concetto nepalese di viaggio. Per noi, poco poetici occidentali, ormai appiattiti su un mondo solo fatto di efficienza, gli ingredienti che caratterizzano un viaggio sono quattro. Un punto di partenza, uno di arrivo ed i relativi orari associati. Quattro lati che costituiscono, talvolta, uno steccato asfissiante dal quale, tuttavia, non sappiamo più fuggire. In Nepal no, non ci sono queste preclusioni mentali. Innanzitutto le ultime due variabili non compaiono proprio nell’equazione. Ossia, in Nepal non si parla di “orario”, ma lo si approssima al più comodo concetto di “giornata”. Ma ciò che è divertente è che, talvolta, sono gli stessi punti di partenza e di arrivo a divenire negoziabili in un crogiolo di trattative bizantine, rimandi ed improvvise cancellazioni. Tutto ciò non può che apparire inconcepibile per chi, con credit card ha prenotato mesi prima via internet uno specifico biglietto. Ed, infatti, restiamo alquanto stupiti anche noi, quando, con notevole anticipo veniamo fatti accomodare nella “VIP Lounge” dell’aeroporto invece di procedere per uno spedito check in. Per l’esattezza la “VIP lounge” di cui sopra era il cortiletto appena dopo il cancello d’ingresso, spazio in cui siamo stati in piedi quasi un’oretta e la mattina alle 6 a Jomsom, prima che scaldi il sole, fa ben freddo. Tutto ciò, mentre, preoccupati di non avere notizie, vedevamo gente locale che ci passava avanti. Ci viene almeno accordato il permesso di andare fare colazione ad un bar appena al di là dell’unico stradone. Rientrando siamo ammessi nell’aerostazioncina. Un grosso salone a quell’ora già pieno di vasto ed assortito materiale umano e della più disparata tipologia di bagaglio. Nel frattempo l’atmosfera si agita per l’arrivo dei primi aerei, dei coloriti bimotori da circa una quindicina di posti. Nella stretta valle in cui si trova Jomsom l’uso dell’aeroporto è ristretto alle primissime ore della mattina, prima che si levi il vento. In queste poche, frenetiche, ore, pertanto, sia i passeggeri che il paese si agitano dentro e fuori dell’aeroporto in modo molto animato. Pur avendo uno specifico biglietto in mano da mesi, alla fine veniamo fatti salire a bordo di un velivolo che va dove dovevamo andare nella giornata in cui dovevamo andarci. Cosa si vuole di più dalla vita? E siamo quindi pronti per rientrare verso quella che, comunemente, è definita civiltà. Ma prima di lanciarci nella manovra del decollo qualche parola va spesa per questo particolare aeroporto. Innanzitutto si trova alla rispettosa quota di 2700 metri, la pista è piuttosto corta, se ne può fruire solo in condizioni di piena visibilità e l’orografia del terreno circostante, stretta tra il monte Tilicho di oltre 7000 metri ed un ripido costone, non poteva essere peggiore. Unica direzione da cui atterrare e decollare sempre per orografia. Una foto testimonia la “comodità” del percorso unico che va impiegato sia per l’avvicinamento che per il decollo. Ci allineamo sul “pettine” ad inizio pista, viene dato tutto motore ed inizia una corsa di decollo che pare non finire mai. Percepiamo perfettamente che la rotazione è avvenuta esattamente in corrispondenza del pettine dalla parte opposta della pista. Ma non basta. La rotazione è giusto servita per lasciare il terreno. Approfittando della valle che si apre appena terminata la pista, il pilota “appoggia” un pochino l’aereo (ossia non lo fa salire) per recuperare ancora un filo di velocità. Una leggera virata a destra per evitare un costone e, finalmente, con una virata a sinistra, inizia la salita verso Pokkara. Anche oggi, pur essendo venerdì 17, è andata bene! Si, perché un decollo di questo genere non offre molte possibilità di recupero nel caso qualcosa vada male. Con l’arrivo a Pokkara ci distendiamo e, per farlo al meglio, ce ne andiamo su un bel bar con dehor sul lago. Le cime, le insidie dell’alta quota, il panorama aspro sembrano essere aspetti lontanissimi seppure davanti nostri occhi sino a venti minuti fa. Qui, al contrario, in questa tranquilla stazione di soggiorno, ci sono fiori, uccelli, barche a vela, gente che fa parasailing dalle colline che si affacciano sul lago. Finalmente una colazione con latte e marmellata e frutta fresca. Due chiacchere all’ombra della vegetazione mentre vediamo due corvacci che approfittano degli avanzi lasciati sul tavolo da altri clienti che hanno appena lasciato il loro tavolo. Rientro rilassato in aeroporto dove, oramai usi alle abitudini “aeronautiche” nepalesi, sappiamo di dover ripartire, in qualche momento della giornata, verso Kathmandu. Nell’attesa abbiamo notano un signore di etnia mongola piuttosto singolare, il quale, per via del proprio abbigliamento e del fluente capello acconciato in un trasgressivo codino, venne soprannominato “the man in black” e che è stato oggetto dei divertiti commenti delle nostre signore. Finalmente Buddha decide che anche per noi è arrivato il momento di partire ed, in un’altra ventina di minuti atterriamo nel consueto marasma dell’aeroporto di Kathmandu. Molliamo i bagagli alla Kathmandu Guest House, la stessa dell’andata, e dopo una più che desiderata doccia, siamo pronti per seguire Sukabir al mercato. Pur essendo una destinazione non lontana dal turistico quartiere di Thamel, è, in buona parte, frequentato solo da locali. Per arrivarci effettuiamo una sorta di percorso di guerra reso tale da ogni sorta di ostacolo. Risciò, motorini, vetture, biciclette e pedoni in senso contrario. Nel quarto d’ora di strada il gruppetto viene separato da tali ostacoli e rischiamo di perderci. Sarebbe un problema, poiché inizia a fare buio, non c’è una scritta con l’indicazione di una via, la strada è stracolma di gente che sbuca da tutti gli angolo e né sapremmo dove andare. Il vero problema è che in quella massa di umani e mezzi si resta letteralmente “bloccati” pur essendo a piedi. Alla fine arriviamo in una piazza buia, brulicante di persone, illuminata solo dalle rare candele poste sopra le bancarelle. Mentre l’itinerario era stato particolarmente sgradevole per la infausta commistione di mezzi ed umani, commistione caratterizzata da uno smog asfissiante e da uno snervante suonare di clacson , qui, si sente solo il vociare delle persone che non da alcun fastidio. Anzi, è un’oasi di pace piena di mistero. Ci sono dei piccoli anditi in cui si vendono spezie. Anditi talmente piccoli che sembrano confessionali. Il negoziante, infatti, è seduto in fondo a questa sorta di cabina telefonica. Le mercanzie, spezie ed infinite varietà di thè, sono su un banchetto che va verso l’esterno e la “vetrina” ossia la parte esterna di questo cubicolo, consente ad un unico cliente per volta di guardare. Tutto ciò meriterebbe una foto ma per quanto faccio non riesco a convincere la mia macchina supertecnologica ad aprire gli occhi. Porto con me la poesia di quest’immagine che sembrava uscire da un libro di memorie di Marco Polo sulla via della seta. Rientriamo alla KGH e facciamo una ricca cena con tanto di brindisi finale per poi crollare a ninna.


Sabato 18 ottobre (Kathmandu – Bhaktapur - Kathmandu)
Oggi è la giornata dedicata alla visita della città sacra di Bhaktapur. Arriva a prenderci un pulmino solo per noi il quale, di prima mattina, prima dell’inizio del gran traffico, si avventura per le strade ancora semideserte della città. E mentre attraversiamo ancora l’abitato La città inizia giusto ad allora a risvegliarsi.



















Ragazzi in divisa ai semafori pronti ad attraversare la strada, lavoratori che iniziano il loro viaggio verso il posto di lavoro, negozi che tirano su le loro saracinesche. Tra le due città ci sono circa una quindicina di chilometri ma non c’è un vero tratto di campagna tra i due insediamenti. Al cont

rario, c’è un continuum di periferia piuttosto brutta, fatta di caseggiati fatiscenti e, talvolta, da bidonville precariamente abbarbicate in vicinanze di limacciosi canali. Anche le migliaia di attività fatte all’aperto, proprio sul sul ciglio della strada, aprono i loro battenti al pubblico: è così per il barbiere, per il macellaio, per il sarto, per il venditore di frutta. Una cosa che ci colpisce sono le lezioni di scuola guida per motorini sui prati polverosi che costeggiano la strada, lezioni in cui, istruttori ed allievi sono sullo stesso mezzo. Arriviamo a Bhaktapur quando ormai il caotico traffico nepalese ha ripreso in pieno il sopravvento, lasciandoci dietro l’ennesimo cantiere stradale, segnalato alla bell’e meglio con una carriola in mezzo alla strada per segnalare la presenza di operai al lavoro che utilizzavano ancora solo piccone e martello per divellere il manto stradale. Appena arrivati ci si presenta un ragazzo che in buon inglese si propone per una visita guidata alla città. Paghiamo il biglietto di accesso a questa città museo, che, a differenza di Kathmandu, tramite un sapiente intervento di recupero urbanistico fatto da architetti tedeschi, è stata fortunatamente resa libera dall’ossessionante rumore del traffico automobilistico. Penetriamo in questo gioiello, detto “città dei devoti” fatto tutto di templi e piazze, attraverso un viale in salita. Ci addentriamo in una serie di successive stradine che, all’improvviso, vanno a gettarsi in grandi piazze o piccoli chiostri comunque, e sempre, pieni di vita. Ci viene spiegato che metà ottobre è proprio il periodo di raccolta ed essiccazione del riso e quest’ultima operazione è svolta proprio utilizzando le grandi piazze o gli spazi aperti della città. Infatti, troviamo riso dappertutto! Certe volte lo stesso passaggio dei pedoni risulta difficile per via di questo manto sparso con rastrelli su ogni centimetro quadrato di piano. E se il riso non giace a terra esso è movimentato, setacciato, accudito da uno stuolo di uomini, donne e bambini. Finalmente qui il silenzio la fa da padrone. La guida inizia a narrarci le antiche radici e complesse vicende della città, fatta di re, di dinastie, di conquiste, di palazzi e di templi. Vorrei seguire ma sono troppo preso, finalmente, a poter fare foto di architetture e persone, i soggetti da me preferiti. Le costruzioni sono costituite da grandi ed antichi palazzi, sormontati da sontuosi tetti a pagoda, fatti tutti di mattoni dal caldo colore impreziositi da grandi statue di pietra e da raffinati infissi lignei. Il cielo blu ed il sole tiepido ci fanno godere di questo profumo di storia, reso vivo dai passanti, in costume locale dai chiassosi colori, che animano le piazze lastricate anch’esse in terracotta. Impossibile resistere a voler prendere con la macchina fotografica questa imperdibile “gourmandise” culturale nel tentativo di fissare in un attimo sensazioni, colori, profumi, sguardi di cui poi inebriarsi ancora una volta ritornati a casa. Infatti, le azioni che noi occidentali non ci sogneremmo mai di fare in luogo pubblico, qui paiono essere la normalità della vita sociale. E così, mentre la guida ci parla, sono letteralmente risucchiato da quanto mi vedo passare davanti. Anche qui donne avvolte nei loro meravigliosi costumi, anziani seduti a terra, assorti nelle loro meditazioni e resi quasi imperturbabili da tutto ciò che li circonda, artigiani al lavoro nelle loro attività, bambini che si divertono con i loro semplicissimi giocattoli di legno. E di monumento in monumento arriviamo, infine, ad una scuola di pittura dove ci viene raccontato si disegnano i famosi “mandala” . I mandala sono dei disegni di carattere sacro. Ce ne sono varie tipologie ad inchiostro su carta oppure con polveri colorate. I soggetti possono essere schemi geometrici, propriamente utilizzati per la meditazione o narrazioni della vita del Buddha o di altre divinità. Questi disegni sono realizzati da quattro possibili livelli di artisti: il livello di studente, poi quello di studente anziano, quello di Master ed, infine quello di Monaco. Quest’ultimo è il livello più alto di capacità e conoscenza. Infatti, ogni segno ha un preciso significato morale e soltanto il monaco ha una piena conoscenza della verità, tant’è che è l’unico che può firmare il proprio mandala. Ci è stato anche spiegato che il Dalai Lama, qualche anno fa, ha creato il suo mandala personale, fatto di polveri colorate.


















Dopo un periodo in cui quest’opera è stata esposta essa è stata distrutta, le sue polveri raccolte in un’ampolla e la stessa gettata in un lago sacro. Ciò proprio a testimonianza del principio che tutto quel è creato dall’uomo non può che essere effimero. Restiamo tutti affascinati da queste spiegazioni e qualcuno del gruppetto compra di queste tele. Proseguiamo la nostra visita entrando nel quartiere in cui vengono prodotti vasi di terracotta. Queste creazioni vengono messe a seccare sulla pubblica piazza creando un arredo urbano quanto mai singolare. Dovrei citare nel dettaglio templi e costruzioni che abbiamo visto ma non ho avuto modo di seguire con troppa attenzione la guida, intento come ero a prendere immagini. Rientriamo a Kathmandu con il consueto traffico caotico andando ad un appuntamento importante. Siamo, infatti, a casa di Sukabir che ci ha invitati per pranzo, pranzo cui saranno presenti la moglie Manzù e Tham e Gyaljen, nel frattempo appena arrivati via terra da Jomsom. Arriviamo in una piccola strada di periferia di Kathmandu, in una zona tranquilla, lontano dall’incontrollato strombazzare dei clacson. Diveniamo subito motivo di interesse di tutto il vicinato che, incuriosito, si affaccia discretamente da dietro le finestre o ci guarda in disparte da un lato della strada. I bambini, invece, festanti, ci circondano e ci accompagnano sull’uscio di casa di Sukabir. In segno di rispetto nei suoi confronti ci togliamo, come tradizione, le scarpe ed entriamo in questa semplice ma decorosissima casa. Salutiamo affettuosamente i nostri angeli custodi per tutto il trekking: Sukabir, Tham e Gyaljen e conosciamo la giovane sposa di Sukabir, Manzù. Veniamo fatti accomodare in una sala da pranzo appositamente attrezzata per noi e, nonostante le nostre ripetute richieste, Manzù non si siede con noi, ma mangia in cucina. Pur dolendocene, ci è sembrato appropriato non insistere più di tanto. Non avremmo voluto, infatti, creare imbarazzi dovuti al sovvertimento involontario da parte nostra di usi e costumi seguiti in Nepal. Il menù era un sostanzioso piatto di Dahl bat, piatto nazionale nepalese a base di carne, riso e spezie. Preparato da Tham, questo piatto ci è stato servito più volte sinchè non siamo stati davvero sazi. Interessante notare che ogni volta che venivamo serviti i pezzi di pollo più carnosi erano destinati a noi ospiti. In quella casa si era creata un’atmosfera davvero speciale. Si sono, infatti, liberati dei sentimenti di stima profonda, di affetto oserei dire, tra persone di provenienza così diversa. Eppure sembrava che la nostra amicizia fosse lunga anni.
Quali potessero essere gli ingredienti di questo rapporto non lo so. Sta di fatto che noi nutrivamo per queste persone un senso di profondo rispetto e loro una sincera gratitudine nei nostri confronti. Forse, tra i tanti clienti che hanno conosciuto noi siamo stati tra i pochi a cercare ed a credere in un rapporto umano con loro. Più volte, infatti, ci hanno raccontato di essere stati trattati con estremo distacco da altri clienti. Dopo il pranzo abbiamo conosciuto Dorge, zio di Sukabir, che parlava un perfetto italiano, anch’egli lavoratore da anni presso un rifugio in Val d’Aosta quando, nel periodo estivo, in Nepal ci sono i monsoni. Abbiamo lasciato quella casa con gli occhi un po’ lucidi per la commozione. Commozione nel lasciare un paese che tanto ci aveva dato e nel doverci separare da persone così oneste e care. Ci siamo ripromessi di aiutare Tham a trovare un posto di lavoro in Italia durante la stagione estiva e di ospitare a maggio Sukabir prima che lo stesso inizi a lavorare presso il Rifugio Bertone in Val d’Aosta. Questo momento, così ricco di umanità, ha lasciato un profondo ricordo in noi tutti.

Domenica 19 ottobre (Kathmandu –Doha - Malpensa)
Il giorno della partenza ci dirigiamo mestamente in aeroporto. Oramai l’allegra confusione della città non ci impressiona più. Facciamo una serie infinita di controlli e finalmente ci imbarchiamo sul volo che ci riporterà a Malpensa. Dentro di noi tanti colori, tanti desideri di ritornare in questo affascinante paese, tanti sentimenti. Ci sentiamo arricchiti di qualcosa, quel qualcosa, impercettibile, impalpabile, eppure così presente, che certamente ci riporterà a vedere le belle montagne del Nepal ed a vivere nuovamente rapporti con i suoi abitanti.
(Se hai piacere di seguire un altro viaggio in Nepal svolto l'anno successivo puoi collegarti al sito http://mbattaglia.altervista.org/)

2 commenti:

  1. Bella zì. Hai fatto davvero un bellissimo lavoro con questo blog, sei diventato anche più bravo di me... Sono contento di essere stato il primo a conoscere il progetto del tuo resoconto di viaggio e a darti qualche piccolo aiuto. Foto bellissime, scritto idem.
    Matteo

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  2. Wow!!!!splendide le foto, frizzante il commento..sul cavallino, però, mi sei sembrato un po' rigido....baci Paola

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